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Poi tornammo all albergo e gli chiesi se aveva trovate
delle altre carte nei fossati. Lui teneva in mano il coltel-
lo, lo apriva e lo chiudeva, provandone le lame contro il
palmo. Mi rispose di no. Gli dissi che io una volta mi ero
comprato un coltello cosí sul mercato di Canelli, e mi
era servito in campagna per segare i salici.
Gli feci dare un bicchiere di menta e mentre beveva
gli chiesi se era già stato sul treno o in corriera. Piú che
sul treno, mi rispose, gli sarebbe piaciuto andare in bici-
cletta, ma Gosto del Morone gli aveva detto che col suo
piede era impossibile, ci sarebbe voluta una moto. Io co-
minciai a raccontargli di quando in California circolavo
in camioncino, e stette a sentirmi senza piú guardare
quei quattro che giocavano a tarocchi.
Letteratura italiana Einaudi 84
Cesare Pavese - La luna e i falò
Poi mi disse:  Quest oggi c è la partita  , e allargava
gli occhi.
Stavo per dirgli:  E tu non ci vai?  ma sulla porta
dell Angelo comparve il Valino, nero. Lui lo sentí, se ne
accorse prima ancora di vederlo, posò il bicchiere, e rag-
giunse suo padre. Sparirono insieme nel sole.
Cos avrei dato per vedere ancora il mondo con gli oc-
chi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con
quello stesso padre, magari con quella gamba  adesso
che sapevo tante cose e sapevo difendermi. Non era mi-
ca compassione che provavo per lui, certi momenti lo
invidiavo. Mi pareva di sapere anche i sogni che faceva
la notte e le cose che gli passavano in mente mentre ar-
rancava per la piazza. Non avevo camminato cosí, non
ero zoppo io, ma quante volte avevo visto passare le car-
rette rumorose con su le sediate di donne e ragazzi, che
andavano in festa, alla fiera, alle giostre di Castiglione,
di Cossano, di Campetto, dappertutto, e io restavo con
Giulia e Angiolina sotto i noccioli, sotto il fico, sul mu-
retto del ponte, quelle lunghe sere d estate, a guardare il
cielo e le vigne sempre uguali. E poi la notte, tutta la
notte, per la strada si sentivano tornare cantando, riden-
do, chiamandosi attraverso il Belbo. Era in quelle sere
che una luce, un falò, visti sulle colline lontane, mi face-
vano gridare e rotolarmi in terra perch ero povero, per-
ch ero ragazzo, perch ero niente. Quasi godevo se veni-
va un temporale, il finimondo, di quelli d estate, e gli
guastava la festa. Adesso a pensarci rimpiangevo quei
tempi, avrei voluto ritrovarmici.
E avrei voluto ritrovarmi nel cortile della Mora, quel
pomeriggio d agosto che tutti erano andati in festa a Ca-
nelli, anche Cirino, anche i vicini, e a me, che avevo sol-
tanto degli zoccoli, avevano detto:  Non vuoi mica an-
darci scalzo. Resta a fare la guardia  . Era il prim anno
della Mora e non osavo rivoltarmi. Ma da un pezzo si
aspettava quella festa: Canelli era sempre stata famosa,
Letteratura italiana Einaudi 85
Cesare Pavese - La luna e i falò
dovevano far l albero della cuccagna e la corsa nei sac-
chi; poi la partita al pallone.
Erano andati anche i padroni e le figlie, e la bambina
con l Emilia, sulla carrozza grande; la casa era chiusa.
Ero solo, col cane e coi manzi. Stetti un pezzo dietro la
griglia del giardino, a guardare chi passava sulla strada.
Tutti andavano a Canelli. Invidiai anche i mendicanti e
gli storpi. Poi mi misi a tirar sassi contro la colombaia,
per rompere le terrecotte, e li sentivo cadere e rimbalza-
re sul cemento del terrazzo. Per fare un dispetto a qual-
cuno presi la roncola e scappai nei beni, «cosí», pensa-
vo, «non faccio la guardia. Bruciasse la casa, venissero i
ladri». Nei beni non sentivo piú il chiacchiericcio dei
passanti e questo mi dava ancor piú rabbia e paura, ave-
vo voglia di piangere. Mi misi in caccia di cavallette e gli
strappavo le gambe, rompendole alla giuntura. «Peggio
per voi», gli dicevo, «dovevate andare a Canelli». E gri-
davo bestemmie, tutto quelle che sapevo.
Se avessi osato, avrei fatto in giardino un massacro di
fiori. E pensavo alla faccia di Irene e di Silvia e mi dice-
vo che anche loro pisciavano.
Un carrozzino si fermò al cancello.  C è nessuno?
sentii chiamare. Erano due ufficiali di Nizza che avevo
già visto una volta sul terrazzo con loro. Stetti nascosto
dietro il portico, zitto.  C è nessuno? signorine!  gri-
davano.  Signorina Irene!  Il cane si mise a abbaiare,
io zitto.
Dopo un po se ne andarono, e adesso avevo una sod-
disfazione. «Anche loro», pensavo, «bastardi». Entrai in
casa per mangiarmi un pezzo di pane. La cantina era
chiusa. Ma sul ripiano dell armadio in mezzo alle cipolle
c era una bottiglia buona e la presi e andai a bermela
tutta, dietro le dalie. Adesso mi girava la testa e ronzava
come fosse piena di mosche. Tornai nella stanza, ruppi
per terra la bottiglia davanti all armadio, come se fosse
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Cesare Pavese - La luna e i falò
stato il gatto, e ci versai un po d acquetta per fare il vi-
no. Poi me ne andai sul fienile.
Stetti ubriaco fino a sera, e da ubriaco abbeverai i
manzi, gli cambiai strame e buttai il fieno. La gente co-
minciava a ripassare sulla strada, da dietro la griglia
chiesi che cosa c era attaccato sul palo della cuccagna, se
la corsa era stata proprio nei sacchi, chi aveva vinto. Si
fermavano a parlare volentieri, nessuno aveva mai parla-
to tanto con me. Adesso mi sembrava di essere un altro,
mi dispiaceva addirittura di non aver parlato a quei due
ufficiali, di non avergli chiesto che cosa volevano dalle
nostre ragazze, e se credevano davvero che fossero come
quelle di Canelli.
Quando la Mora tornò a popolarsi, io ne sapevo ab-
bastanza sulla festa che potevo parlarne con Cirino, con
l Emilia, con tutti, come ci fossi stato. A cena ci fu anco-
ra da bere. La carrozza grande tornò a notte tardissimo,
ch io dormivo da un pezzo e sognavo di arrampicarmi
sulla schiena liscia di Silvia come fosse il palo della cuc-
cagna, e sentii Cirino che si alzava per andare al cancel-
lo, e parlare, sbatter porte e il cavallo sbuffare. Mi girai
sul saccone e pensai com era bello che adesso ci fossimo
tutti. L indomani ci saremmo svegliati, saremmo usciti
in cortile, e avrei ancora parlato e sentito parlare della
festa.
Letteratura italiana Einaudi 87
Cesare Pavese - La luna e i falò
XX
Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagio-
ne, e ogni stagione aveva la sua usanza e il suo gioco, se-
condo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno. L in-
verno si rientrava in cucina con gli zoccoli pesanti di
terra, le mani scorticate e la spalla rotta dall aratro, ma
poi, voltate quelle stoppie, era finita, e cadeva la neve. Si
passavano tante ore a mangiar le castagne, a vegliare, a
girare le stalle, che sembrava fosse sempre domenica. Mi
ricordo l ultimo lavoro dell inverno e il primo dopo la
merla  quei mucchi neri, bagnati, di foglie e di meligac-
ce che accendevamo e che fumavano nei campi e sape-
vano già di notte e di veglia, o promettevano per l indo-
mani il bel tempo.
L inverno era la stagione di Nuto. Adesso ch era gio-
vanotto e suonava il clarino, d estate andava per i bric-
chi o suonava alla Stazione, soltanto d inverno era sem-
pre là intorno, a casa sua, alla Mora, nei cortili. Arrivava
con quel berretto da ciclista e la maglia grigioverde e
raccontava le sue storie. Che avevano inventato una
macchina per contare le pere sull albero, che a Canelli
di notte dei ladri venuti da fuori avevano rubato il pi-
sciatoio, che un tale a Calosso prima d uscire metteva ai
figli la museruola perché non mordessero. Sapeva le sto-
rie di tutti. Sapeva che a Cassinasco c era un uomo che,
venduta l uva, stendeva i biglietti da cento su un cannic- [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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