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ci. Perché dunque spendere quattro complesse parole  `dolce colore d'orientai zaffiro'  là dove sarebbe
stato tanto più immediato e comprensibile il corrispondente ideogramma cinese?".
1962
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Industria e repressione sessuale in una società padana
La presente inchiesta elegge come campo di indagine l'agglomerato di Milano alla propaggine nord
della penisola italiana, un protettorato vaticano del Gruppo delle Mediterranee. Milano si trova circa a 45
gradi di latitudine nord dall'Arcipelago della Melanesia e a circa 35 gradi di latitudine sud dall'Arcipelago
di Nansen nel Mar Glaciale Artico. Si trova quindi in una posizione pressoché mediana rispetto alle terre
civili e se pure fosse più facilmente raggiungibile dalle popolazioni eschimesi tuttavia è rimasta al di fuori
dei vari itinerari etnografici. Debbo il consiglio di una indagine su Milano al Professor Korao Paliau del-
1'Anthropological Institute delle Isole dell'Ammiragliato e ho potuto condurre la mia inchiesta grazie al
generoso aiuto della Aborigen Foundation of Tasmania che mi ha fornito un grani' di ventiquattromila
denti di cane per affrontare le spese di viaggio ed equipaggiamento. Non avrei peraltro potuto stendere
queste note con la dovuta tranquillità, riesaminando il materiale raccolto al ritorno dal mio viaggio, se il
Signore e la Signora Pokanau dell'Isola di Manus non mi avessero messo a disposizione una palafitta iso-
lata dal consueto clangore dei pescatori di trepang e dei mercanti di copra che purtroppo hanno reso in-
frequentabili certe zone del nostro dolce arcipelago. Né avrei peraltro potuto correggere le bozze e riunire
le note bibliografiche senza l'affettuosa assistenza di mia moglie Aloa che spesso ha saputo interrompere
la confezione di collane di fiori del pua per correre all'arrivo del battello postale e trasportarmi alla pala-
fitta le enormi casse di documenti che via via richiedevo all'Anthropological Documentation Center di Sa-
moa e che per me sarebbero state di troppo peso.
Per, anni chi si è avvicinato agli usi e ai costumi dei popoli occidentali lo ha fatto muovendo da uno
schema teorico a priori che ha bloccato ogni possibilità di comprensione. Il condannare gli occidentali
come popoli primitivi, solo perché son dediti al culto della macchina, ancora lontani da un contatto vivo
con la natura, ecco un esempio dell'armamentario di false opinioni con cui i nostri antenati hanno giudica-
to gli uomini incolori e gli europei in particolare. Una malintesa impostazione storicistica induceva a cre-
dere che in tutte le civiltà si attuino dei cicli culturali analoghi, per cui esaminando a esempio il compor-
tamento di una comunità anglosassone si riteneva che essa si trovasse semplicemente a una fase antece-
dente alla nostra e che un suo successivo sviluppo avrebbe portato un abitante di Glasgow a comportarsi
come un melasiano. Si deve quindi all'opera illuminata della dottoressa Poa Kilipak se si è andato af-
fermando il concetto di "modello culturale" con le stupefacenti conclusioni che comportava: un abitante
di Parigi vive secondo un complesso di norme e di abitudini che si integrano in un tutto organico e forma-
no una determinata cultura, valida come la nostra seppure di modi diversi. Di qui si aprì la via per una ret-
ta indagine antropologica sull'uomo incolore e per una comprensione della civiltà occidentale (poiché  e
si potrà anche accusarmi di cinico relativismo  di civiltà si tratta, anche se non segue i modi della nostra
civiltà. E non è detto, me lo si permetta, che cogliere noci di cocco salendo a piedi nudi su di una palma
costituisca un comportamento superiore a quello del primitivo che viaggia in jet mangiando patatine da un
sacchetto di plastica).
Ma anche il metodo della nuova corrente antropologica poteva dar adito a gravi equivoci; come a e-
sempio quando il ricercatore, proprio per l'aver riconosciuto dignità di cultura al "modello" studiato, si ri-
faceva ai documenti storici direttamente prodotti dagli indigeni soggetti a descrizione, desumendo da
quelli le caratteristiche del gruppo stesso.
1. L'ipotesi del Dr. Dobu di Dobu (Dobu)
Un tipico esempio di questa "illusione storiografica" ci viene dato proprio a proposito del villaggio di
Milano da un libro pubblicato nel 1910 dal Dr. Dobu di Dobu (Dobu) intitolato I villaggi italiani e il culto
del "risorgimento", in cui lo studioso cerca di ricostruire la storia della penisola in base agli scritti storici
dei nativi.
Secondo il Dr. Dobu la penisola nel secolo scorso sarebbe stata teatro di lotte acerrime tendenti a ri-
condurre i vari villaggi sotto un solo dominio; tutto questo ad opera di alcune comunità, mentre altre si
opponevano fieramente all'unificazione. Il Dr. Dobu indica le comunità favorevoli come rivoluzionarie o
"risorgimentali" (alludendo a un culto della risorgenza diffusosi in quell'epoca, probabilmente a sfondo
sciamanico) e quelle contrarie come "reazionarie".
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Ecco come il Dr. Dobu, con il suo stile particolare, al quale attribuiremo piuttosto i meriti dell'ornato
letterario che non quelli della concretezza scientifica, espone la situazione:
"Fremiti di risorgimento ardevano per tutta la penisola, ma la reazione vegliava in agguato per man-
tenere patri-ti e cittadini tutti sotto il tallone dell'austriaco. Certamente non tutti gli stati italiani sentiva-
no l'ansia della riunificazione, ma fra tutti il regno di Napoli fu quello che tenne alta la fiaccola della ri-
scossa. Se dobbiamo credere ai documenti fu appunto il Re delle due Sicilie che fondò l'accademia milita-
re della Nunziatella nella quale si formarono i più fervidi patrioti, Morelli e Silvati, Pisacane, De Sanctis.
A questo monarca illuminato si dovette dunque la rinascita italiana; ma tramava nell'ombra una oscura
figura di austriacante, il Mazzini, del quale poco riportano le storie, salvo che continuamente organizza-
va falsi complotti che di regola venivano stranamente scoperti e sventati, così che i migliori e più genero-
si patrioti, astutamente istigati dal Mazzini, cadevano nelle mani dell'austriaco e venivano chi ucciso chi
imprigionato. Altro terribile nemico del risorgimento fu Silvio Pellico: il lettore che scorre le pagine di
un suo libretto in cui narra il diario della sua detenzione in un carcere austriaco, ha la netta sensazione
che un'opera del genere contò per l'unificazione italiana peggio di una battaglia perduta. Da un lato in-
fatti il subdolo narratore dà una immagine dolciastra e idillica di un carcere moravo, luogo di casti ripo-
si ove si discute di varia umanità con carcerieri affabili, si amoreggia, sia pure platonicamente, con fan-
ciulle, si addomesticano insetti e si corre felici a subire amputazioni tanta è la maestria dell'imperiale [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]

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