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Tu hai creato i deserti, le montagne e le foreste,
Io ho fatto i frutteti, i giardini e i boschetti,
Io ho mutato in specchio la pietra
Io ho mutato il veleno in antidoto.
MOHAMMED IQBAL
Mario fece accomodare la visitatrice sul divano di cuoio rosso, soffice come ra-
so, tra le lampade giapponesi.
Un boy, vestito soltanto di pantaloni corti aderenti azzurro vivo, aperti sulle co-
sce lateralmente, portò un vassoio di bicchieri e s'inginocchiò per deporli sul lungo e
stretto tavolo anch'esso di cuoio.
La casa di Mario era costruita in legno, a picco sul canale nero e agitato dai ri-
flessi della luna.
A un piano solo, sembrava dall'esterno un edificio straniero.
Quando vi si entrava, il lusso dei mobili e delle stoffe era sorprendente.
Il salone si apriva sul khlong in tutta la sua lunghezza.
Dal posto in cui si trovava, Emmanuelle poteva vedere le barche, cariche di be-
vande zuccherate, di noci di cocco e di bambù ripieni di riso cotto, incrociare nella
notte gli isolotti di liane e di foglie trascinati dalla corrente.
L'uomo o la donna che, in piedi a poppa, curvo sull'unico remo, s'affaticava bi-
lanciando il piede, gettava all'interno della stanza, passando, un'occhiata placida.
Al pignone del vicino tempio, le campanelle di rame dal battaglio a forma di fo-
glia di fico bodhi, agitate dal vento, emettevano due tintinnanti note, l'una tenue, l'al-
tra grave e come ferita.
In lontananza, un gong chiamava i bonzi al riposo.
La voce di una donna attaccò una rauca ninnananna alla culla di un bambino.
«Verrà un amico,» disse Mario.
La sua voce smorzata s'adeguò alle ombre delle figure del budda tracciate sul
muro dal laconico chiarore delle lampade.
Emmanuelle avverte una specie di inquietudine fisica, al punto di bere d'un sol
colpo mezzo bicchiere del forte cocktail servito dal boy.
Ma l'effetto dell'alcool non basta a sciogliere il nodo che si è formato in lei.
Cosa sta capitando? Ha vergogna di questa paura indeterminata e tenta di spez-
zare l'assurdo incantesimo: «Lo conosco?» chiede.
Solo dopo aver parlato l'assale la delusione: così Mario non si cura neanche di
esser solo con lei! lei che aveva creduto che volesse averla in suo potere.
Aveva rifiutato il marito, e adesso invita qualcun altro, un qualsiasi cicisbeo.
Mario risponde: «No. L'ho incontrato per la prima volta l'altro ieri, a una festa di
amici. È inglese, un individuo affascinante. E con una pelle stupefacente. Il sole di
questo paese gli ha conferito una tinta unita e brunita... come dire? un colore che pro-
fuma. Le piacerà.»
La gelosia e l'umiliazione stringono il cuore di Emmanuelle.
Mario parla di quest'uomo con una ghiottoneria che gli fa sospendere la frase tra
parola e parola, come se la seguente venisse scelta dopo ampi dibattiti di coscienza,
come se, così Emmanuelle immagina, avesse in mano un vassoio e fosse chino sulla
vetrina di un pasticciere.
Può ancora aver dubbi sui suoi gusti? Ariane aveva ragione ad avvertirla! Ma
contemporaneamente Emmanuelle ha la strana impressione che i meriti dell'ospite at-
teso non vengano descritti soltanto per la gioia di chi li descrive, ma per lei, Emma-
nuelle, come se fossero a lei destinati.
Non sa più che pensare.
Se Mario vuol prenderla, non ha niente in contrario.
Se lo aspetta: è venuta per questo, decisa a compiacere Marie-Anne, o sempli-
cemente perché la tentazione è più forte di quanto non voglia riconoscere e la certez-
za di cedervi le sta provocando già un piacere altrettanto fisico di quello che tra poco
proverà a slacciarsi da sola il vestito, ad aprire le gambe, a sentire un corpo di cui fi-
no ad allora non avrà conosciuto il contatto e il calore entrare in lei in un sol colpo,
oppure, al contrario, lentamente, pollice per pollice, per poi ritrarsi, lasciandola an-
simante, aperta, dipendente, incerta e umida, oh soave sospensione, e tornare ancora,
sempre, meraviglioso, duro, gonfio, aguzzo, imperioso nella carezza all'interno del
suo sesso, a vuotarsi voluttuosamente in lei, fino all'ultima goccia, lasciandola inse-
minata, argilla lavorata, irrigata, coltivata...
Si morde le labbra, è pronta, vuole questo possesso della sua carne, lo ambisce.
Le si risparmi però un gioco troppo complicato: già la sola idea l'affatica.
Non avrebbe dovuto fidarsi del genio italiano! È sul punto di dire a Mario: «Lei
ha ragione di approfittare delle occasioni che le si offrono, ma si accontenti di me so-
la! Facciamo l'amore, e poi mi rimandi indietro, perché io dorma accanto a mio mari-
to. Quando me ne sarò andata, potrà divertirsi col suo inglese come meglio vorrà.»
Ma immagina quale sarà la sua confusione se Mario la guarderà con l'espressio-
ne di distante cortesia, di sdegno, che già gli ha visto, e le risponderà:
«Mia cara, lei si sbaglia. Lei mi è molto simpatica, molto! Ma...» La voce di
Mario, con lo stesso tono che Emmanuelle le attribuisce in pensiero, interrompe le
sue chimere: «Voglio che lei mostri le gambe il più possibile. Quentin si siederà su
questo pouf. Vuol girarsi da questa parte, in modo che le sue ginocchia siano dirette
verso di lui e che egli possa affondare il suo sguardo nell'ombra della sua gonna?»
Vertigine di Emmanuelle.
Mario ha posato una mano sulla pelle nuda della sua spalla, tanto avanti che le
sue lunghe dita sfiorano lievemente con la punta la base del seno.
La fa ruotare dolcemente verso destra, mentre, con l'altra mano, afferra con de-
licatezza l'orlo della gonna nera e gliela solleva un po' per sbieco, scoprendo le gam-
be in modo ineguale: la sinistra sino a metà coscia, la destra appena sopra il ginoc-
chio.
«No, non le incroci. Così è perfetto. E non si muova a nessun costo. Eccolo.» La
mano di Mario si ritirò: la sentì scivolare lontana come un'onda che abbandona la
spiaggia.
Mario fece accomodare il nuovo venuto, rivolgendo intanto ad Emmanuelle un
sorriso di incoraggiamento, con la complicità di un esaminatore ad una esaminanda
presa dal panico.
Ma il più intimidito sembrava certo l'inglese.
Non mi guarda neanche le gambe, constatò Emmanuelle, non tanto con dispetto
quanto con una gioia vendicativa nei confronti delle macchinazioni di Mario: gli sta-
va bene! D'un tratto, Quentin le sembrò più un alleato che un nemico.
Aveva un aspetto simpatico, riconobbe.
Era vero, non era affatto male.
E, incredibilmente, non sembrava certo appartenere alla genia dei pederasti! Il
nuovo arrivato, purtroppo, non sembrava in grado di pronunciare una sola parola di
francese. «Decisamente, non ho fortuna!» osservò Emmanuelle ironicamente: «Sono
destinata a imbattermi sempre nel tipo gran viaggiatore poco dotato per le lingue.»
L'espressione equivoca la fece ridere interiormente, e le comunicò un brivido di ecci-
tazione: cercò di immaginare le sensazioni che la lingua di Quentin avrebbe potuto
procurarle sfiorando la sua, e poi scendendo giù, sul suo ventre.
Se la immaginò entrare in lei... si riprese e mise in opera uno sforzo meritorio
per pronunciare le poche frasi di inglese imparate nelle tre settimane di soggiorno a
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